C’è una bellissima commedia di Oscar Wilde, autore che, per fama o aforismi virali, non ha certo bisogno di presentazioni. Si chiama “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. Racconta la storia di Algernon Moncrieff e John Worthing, due giovani ragazzi entrambi appartenenti all’alta società londinese ed entrambi accomunati da una doppia vita. Il primo finge di avere un amico malato di nome Bunbury a cui andrebbe a fare visita ogni qualvolta voglia evitare di partecipare a eventi mondani, il secondo, invece, è un ricco proprietario terriero che finge di avere un fratello di nome Ernest, nome che lui stesso usa quando si reca a Londra. Perché questo?

Beh, perché è lì che vive la cugina di Algernon, Gwendolen, di cui lui è innamorato. La ragazza ha sempre desiderato sposare un uomo di nome Ernest, un nome davvero rispettabile per il tempo. Da qui il titolo. Il peso di un nome. Ironico dal momento che, una volta trasportata in Italia, la commedia ha preso il titolo di “L’importanza di essere Franco”, “L’importanza di essere Fedele”, “L’importanza di essere Probo”, “L’importanza di essere Costante” o “L’importanza di essere Onesto”. Ecco che, in questa speciale sede, prendiamo in prestito il genio di Oscar Wilde per provare a capire “L’importanza di chiamarsi derby”.
Derby: un nome, una garanzia
Immaginate una sorta di gara, una corsa al trono. Un posto solo per due pretendenti. In poche semplici immagini potremmo riassumere cos’è il derby nel calcio. Il dizionario lo riconosce come una “competizione sportiva fra due squadre della stessa città”, come dargli torto. Tuttavia, ci vediamo qualcosa di più: la possibilità di rappresentare un popolo come principale squadra della città salvo poi giocare la rivincita l’anno successivo. Perché ogni stracittadina nel corso di una stagione si gioca per due volte, l’andata e il ritorno, affermarsi o ribaltare le carte in tavola, il più nobile degli scontri.

Ci sono partite che non sono come le altre. Un’affermazione che paradossalmente risulta tanto vera dallo sfiorare la banalità. Lo sappiamo bene, ma altrettanto bene sappiamo che nel parlare in questi termini del derby della Mole non incapperemo mai in errore. Juventus contro Torino, la Signora contro l’armata granata, la storia parla per loro. Da una parte una squadra, quella bianconera, pone le sue fondamenta, simbolicamente, sull’ormai celeberrima panchina sulla quale a degli studenti, frequentanti un prestigioso liceo del capoluogo piemontese, venne l’idea del secolo.

Siamo nel 1897 e in poco tempo, anche grazie all’avvicinamento e al sostegno alla causa della famiglia Agnelli, quel piccolo progetto divenne una realtà affine all’aristocrazia del luogo. I contendenti, il Torino, nacquero il decennio successivo, ad essere precisi nel 1906. Si pensi che il club vide la luce grazie all’unione d’intenti tra la Torinese, vecchia formazione della città, e parte dei soci della stessa Juventus, allora dissidenti. Un derby con questi presupposti non può che essere garanzia di spettacolo.
Juventus-Torino, uno specchio sulla realtà

Gli opposti che si attraggono, una città che unisce due realtà così diverse sotto lo stesso tetto. Una nata grazie ad una parte dell’altra. Una vendetta, un aiuto o forse il destino. Juventus-Torino siamo tutti noi. Da Adamo ed Eva, il riferimento alla costola del primo per dar vita alla seconda è chiaro, fino alla società moderna. La coppia più famosa del mondo seguita dei Ferragnez rappresenterebbe ciò da cui l’interà umanità discende, considerati dai cattolici come i progenitori di tutto il genere umano.

Come dimenticare che allo stesso modo – con un po’ di fantasia – il derby della Mole ricopre nella nostra storia l’ambito ruolo di prima stracittadina del calcio italiano – nonché la più longeva di tutte – e il primo incontro calcistico trasmesso in diretta radiofonica nel nostro paese. Se ci fossero altri record da battere, sarebbero sicuramente già in programma. Una sfida scritta negli annali del gioco che più di tutti amiamo, dai grandi ai più piccoli.

Quasi una favola per quest’ultimi. Per i bambini, infatti, non è altro che la trasposizione nella realtà del celebre romanzo de “Il Principe e il povero” di Mark Twain, due personaggi così uguali all’apparenza ma dal passato tanto differente. Per i più navigati è la contrapposizione tra le due principali classi sociali opposte, che ha tenuto banco in Italia fino al primo dopoguerra. Borghesia e proletariato, perché se la storia bianconera l’abbiamo raccontata, ricordiamo anche che il neo-Torino, muovendo i suoi primi passi verso il nuovo secolo, trova appoggio nell’allora acerbo mondo operaio. Gli anni passano e non ci cambiano.

Siamo negli anni 1960 e 1970 quando storicamente, e anche, e soprattutto, grazie ai grandi flussi migratori verso Torino originati negli anni precedenti, la maggior parte di queste differenze va col tempo a scemare. Due squadre, due realtà, che prendono con il tempo strade sempre più differenti. La Juventus sfrutta questo cambiamento nella comunità per espandere il proprio nome prima a livello nazionale e poi mondiale. All’opposto, quasi a simboleggiare l’eterna rivalità, il Torino va sempre di più a rappresentare la cittadina radicata tra le vie di piazza San Carlo. Oltre il calcio, specchio di una società in continuo cambiamento, che evolve tra affinità e contrapposizioni.
L’importanza di chiamarsi derby

Qual è quindi l’importanza di chiamarsi derby? Per qualcuno è una gara fra due squadre della stessa città, in palio il dominio. La mente di qualcun altro potrebbe invece andare all’omonimo storico locale di Milano, creatore di talenti dello spettacolo per anni. Per altri, poi, basta sentire quella parola, nata inglese ma interiorizzata in tutti i vocabolari, per evocare emozioni. Non una semplice sfida, l’abbiamo detto, perché che si giochi in campo o sui libri di storia, “il derby è il derby”. Al via Juventus-Torino, che sia uno spettacolo.